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Mangiare con gli occhi
DOLCE
Oggi occuparsi di cibo e di cucina è molto “in”,
ma qualche anno fa non lo era affatto, soprattutto in
Italia. Per la sinistra militante e radical-chic mangiare
era un optional, mangiare bene era poco moderno,
sedersi a tavola era troppo borghese.
Negli anni di piombo erano pochi i coraggiosi che
andavano controcorrente. Uno di questi era Gianni
Sassi. Nel 1982 Sassi ha fondato a Milano “la Gola,
rivista del cibo e delle tecniche di vita materiale”, la
prima rivista in Italia a pubblicare insieme ricette, testi
di filosofia, poesie e racconti, interventi di artisti e di
studiosi, ricerche sui temi della cultura materiale.
Ci sono storie bellissime che escono da “La Gola”,
come quella di Carlin Petrini, che entra nella redazione
della rivista come ragazzo di bottega e poi fonda
Arci Gola, Slowfood, Slowfood international e la rete
Terra Madre. O come quella di Bepi Pavon, ex cuoco
di Re Faruk, e, a quanto si racconta, l’unico capace
di cucinare il pavone, o le storie delle cene luculliane
che portavano insieme i cibi più preziosi e rari, come il
pavone, con quelli più comuni e poveri come il porco,
“le primizie e le ultimizie”.
E le primizie e le ultimizie, far incontrare alto e basso,
antico e moderno, industriale e contadino, era proprio
l’idea centrale di “La Gola”, era in qualche modo il
progetto politico di Gianni Sassi.
Quest’anno a Milano abbiamo invece l’Expo, un grande
scatolone vuoto che ingigantisce e disturba il senso
e il valore del cibo e della tavola. Il rischio è che
troppa comunicazione, troppa televisione, troppi chef
stellati, troppi Expo anestetizzino la forza del cibo e
dell’alimentazione: il cibo diventa merce su cui si può
speculare. Guardando a quello che succede, credo che
il design e i designer siano dalla parte sbagliata.
Spero che Gianni Sassi e chi legge sapranno
perdonarmi se dopo “La Gola”, rivista molto
importante per la cultura italiana, apro una parentesi
su “Sugo”.
“Sugo, rivista di scritture indecise” era un progetto
editoriale, di design, di fotografia, di arte e di cucina
– da qui il titolo – che il mio studio pubblicava qualche
anno fa.
In ogni numero, oltre a interventi di grafici, designer,
fotografi, pubblicavo anche un pezzo dedicato a un
cuoco, progettato da un cuoco. Ho pubblicato articoli
di Ferran Adrià, di Heston Blumenthal e di Massimo
Bottura.
Mi piaceva il nome “Sugo”, perché pensavo e penso
che il design sia molto simile a un sugo, un’alchimia di
ingredienti, tecniche, sapori, gusti, profumi diversi che
si uniscono in una pentola. Ci deve essere un grande
equilibrio, se si esagera, se c’e troppo sapore, non va
bene, e lo stesso vale anche per il design: l’iper-design
diventa noioso, freddo, poco interessante. Il design è
uno stile di vita più che una vita di stile.
AMARO
Eccoci arrivati all’amaro. Di solito l’amaro è un
piacere, chiude il pasto con soddisfazione. Oggi invece
potremmo dire che l’amaro è un vero amaro, di quelli
che ti rovinano la bocca.
Qualche giorno fa camminavo a Venezia, la mia città, e
nella mia testa prendevano forma le letture, i ricordi,
le persone, le cene, tutte le cose belle del cibo che ho
cercato di raccontare in questo testo. Ma quello che
i miei occhi vedevano attorno era molto diverso, non
era bello, non era piacevole da raccontare e non era
sicuramente da mangiare con gli occhi.
Da parecchi anni i veneziani si sono arresi alle pizze
congelate e ai panini tristemente uguali e semivuoti
esposti nelle vetrine dei bar. Ma ancora non si era
abbattuta sulla Laguna la fiera del souvenir alimentare,
che negli ultimi anni ha invece invaso pure le calli
veneziane. Nuovi negozi alimentari-turistici o turistici-
alimentari che mescolando nord e sud, tradizione e
business vendono al malcapitato, in cerca di un ricordo
originale di Venezia e non voglia la solita mascherina o
la gondola made in China, una bottiglia di limoncello di
Sorrento con la forma del campanile di San Marco, una
scatola di cantucci Veneziani o magari una bottiglia di
vino “Venezia”. Prodotti la cui autenticità è garantita
da colorate illustrazioni sul packaging che riproducono
il ponte di Rialto o il campanile di San Marco, un
gondoliere o una maschera. Chissà se questa moda è
destinata a finire o se invece l’effetto Expo ha lanciato
una nuova tendenza e presto ci troveremo i canederli
allo speck venduti come prodotto tipico pugliese.
Chef che si occupano di design, designer che si
occupano di cucina, Expo, ricettari, programmi
televisivi, gare culinarie, ristoranti, souvenir alimentari:
tutto questo movimento ci deve far riflettere.
Attraverso il cibo abbiamo la possibilità di capire i
cambiamenti, possiamo osservare il mondo in cui
viviamo, i nostri modelli culturali, la nostra società.
Il cibo comunica, ci parla. Il cibo è uno specchio nel
quale ogni giorno possiamo osservarci: purtroppo oggi
quel che si vede non è sempre incoraggiante.
*Questo testo è la trascrizione più o meno fedele del mio
intervento alla conferenza “New food design”, che ha avuto
luogo il 25 settembre 2015 nelle sale delle colonne alla
Biennale di Venezia. Mancano in queste pagine, oltre alle
pause e a qualche ulteriore commento ironico, le immagini
degli oggetti e dei progetti citati, che sono tuttavia facilmente
recuperabili via web, per chi voglia meglio gustare il senso del
mio intervento.