Background Image
Previous Page  21 / 130 Next Page
Information
Show Menu
Previous Page 21 / 130 Next Page
Page Background

23

Mangiare con gli occhi

DOLCE

Oggi occuparsi di cibo e di cucina è molto “in”,

ma qualche anno fa non lo era affatto, soprattutto in

Italia. Per la sinistra militante e radical-chic mangiare

era un optional, mangiare bene era poco moderno,

sedersi a tavola era troppo borghese.

Negli anni di piombo erano pochi i coraggiosi che

andavano controcorrente. Uno di questi era Gianni

Sassi. Nel 1982 Sassi ha fondato a Milano “la Gola,

rivista del cibo e delle tecniche di vita materiale”, la

prima rivista in Italia a pubblicare insieme ricette, testi

di filosofia, poesie e racconti, interventi di artisti e di

studiosi, ricerche sui temi della cultura materiale.

Ci sono storie bellissime che escono da “La Gola”,

come quella di Carlin Petrini, che entra nella redazione

della rivista come ragazzo di bottega e poi fonda

Arci Gola, Slowfood, Slowfood international e la rete

Terra Madre. O come quella di Bepi Pavon, ex cuoco

di Re Faruk, e, a quanto si racconta, l’unico capace

di cucinare il pavone, o le storie delle cene luculliane

che portavano insieme i cibi più preziosi e rari, come il

pavone, con quelli più comuni e poveri come il porco,

“le primizie e le ultimizie”.

E le primizie e le ultimizie, far incontrare alto e basso,

antico e moderno, industriale e contadino, era proprio

l’idea centrale di “La Gola”, era in qualche modo il

progetto politico di Gianni Sassi.

Quest’anno a Milano abbiamo invece l’Expo, un grande

scatolone vuoto che ingigantisce e disturba il senso

e il valore del cibo e della tavola. Il rischio è che

troppa comunicazione, troppa televisione, troppi chef

stellati, troppi Expo anestetizzino la forza del cibo e

dell’alimentazione: il cibo diventa merce su cui si può

speculare. Guardando a quello che succede, credo che

il design e i designer siano dalla parte sbagliata.

Spero che Gianni Sassi e chi legge sapranno

perdonarmi se dopo “La Gola”, rivista molto

importante per la cultura italiana, apro una parentesi

su “Sugo”.

“Sugo, rivista di scritture indecise” era un progetto

editoriale, di design, di fotografia, di arte e di cucina

– da qui il titolo – che il mio studio pubblicava qualche

anno fa.

In ogni numero, oltre a interventi di grafici, designer,

fotografi, pubblicavo anche un pezzo dedicato a un

cuoco, progettato da un cuoco. Ho pubblicato articoli

di Ferran Adrià, di Heston Blumenthal e di Massimo

Bottura.

Mi piaceva il nome “Sugo”, perché pensavo e penso

che il design sia molto simile a un sugo, un’alchimia di

ingredienti, tecniche, sapori, gusti, profumi diversi che

si uniscono in una pentola. Ci deve essere un grande

equilibrio, se si esagera, se c’e troppo sapore, non va

bene, e lo stesso vale anche per il design: l’iper-design

diventa noioso, freddo, poco interessante. Il design è

uno stile di vita più che una vita di stile.

AMARO

Eccoci arrivati all’amaro. Di solito l’amaro è un

piacere, chiude il pasto con soddisfazione. Oggi invece

potremmo dire che l’amaro è un vero amaro, di quelli

che ti rovinano la bocca.

Qualche giorno fa camminavo a Venezia, la mia città, e

nella mia testa prendevano forma le letture, i ricordi,

le persone, le cene, tutte le cose belle del cibo che ho

cercato di raccontare in questo testo. Ma quello che

i miei occhi vedevano attorno era molto diverso, non

era bello, non era piacevole da raccontare e non era

sicuramente da mangiare con gli occhi.

Da parecchi anni i veneziani si sono arresi alle pizze

congelate e ai panini tristemente uguali e semivuoti

esposti nelle vetrine dei bar. Ma ancora non si era

abbattuta sulla Laguna la fiera del souvenir alimentare,

che negli ultimi anni ha invece invaso pure le calli

veneziane. Nuovi negozi alimentari-turistici o turistici-

alimentari che mescolando nord e sud, tradizione e

business vendono al malcapitato, in cerca di un ricordo

originale di Venezia e non voglia la solita mascherina o

la gondola made in China, una bottiglia di limoncello di

Sorrento con la forma del campanile di San Marco, una

scatola di cantucci Veneziani o magari una bottiglia di

vino “Venezia”. Prodotti la cui autenticità è garantita

da colorate illustrazioni sul packaging che riproducono

il ponte di Rialto o il campanile di San Marco, un

gondoliere o una maschera. Chissà se questa moda è

destinata a finire o se invece l’effetto Expo ha lanciato

una nuova tendenza e presto ci troveremo i canederli

allo speck venduti come prodotto tipico pugliese.

Chef che si occupano di design, designer che si

occupano di cucina, Expo, ricettari, programmi

televisivi, gare culinarie, ristoranti, souvenir alimentari:

tutto questo movimento ci deve far riflettere.

Attraverso il cibo abbiamo la possibilità di capire i

cambiamenti, possiamo osservare il mondo in cui

viviamo, i nostri modelli culturali, la nostra società.

Il cibo comunica, ci parla. Il cibo è uno specchio nel

quale ogni giorno possiamo osservarci: purtroppo oggi

quel che si vede non è sempre incoraggiante.

*Questo testo è la trascrizione più o meno fedele del mio

intervento alla conferenza “New food design”, che ha avuto

luogo il 25 settembre 2015 nelle sale delle colonne alla

Biennale di Venezia. Mancano in queste pagine, oltre alle

pause e a qualche ulteriore commento ironico, le immagini

degli oggetti e dei progetti citati, che sono tuttavia facilmente

recuperabili via web, per chi voglia meglio gustare il senso del

mio intervento.